IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
   Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  sul  ricorso  n. 229/1984
 proposto  da:  Astolfo  Di  Amato,  Giorgio  Castellucci  e  Giovanni
 Puliatti,   rappresentati   e  difesi  dall'avv.  Manlio  Morcella  e
 domiciliati presso la segreteria del t.a.r.  in  Perugia,  contro  il
 Ministero di grazia e giustizia e il Ministero del tesoro, in persona
 dei rispettivi ministri pro-tempore, rappresentati e difesi  ex  lege
 dall'avvocatura  distrettuale  dello Stato di Perugia presso cui sono
 domiciliati  in  Perugia,  per  il  riconoscimento  del  diritto  dei
 ricorrenti  alla  attribuzione degli aumenti periodici di stipendio a
 far tempo dal 1 gennaio 1979 secondo il computo di cui al  combinato
 disposto  dagli  artt.  2  della  legge 16 dicembre 1961, n. 1308, 10
 della legge 20 dicembre 1961, n. 1345, 1 del d.P.R. 28 dicembre 1970,
 n.  1079,  5  del  d.P.R.  28 dicembre 1970, n. 1080, 9 della legge 2
 aprile 1979, n. 97, e per la declaratoria  della  condanna  a  carico
 delle  amministrazioni, a favore degli istanti, al pagamento di tutte
 le somme cosi' dovute  maggiorate  degli  interessi  e  rivalutazione
 dalla data delle singole scadenze mensili fino al saldo;
    Visto il ricorso con i relativi allegati;
    Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero di grazia e
 giustizia e del tesoro;
    Viste  le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive
 difese;
    Visti gli atti tutti della causa;
    Udita  alla  pubblica udienza del 25 gennaio 1989 la relazione del
 referendario dott. Capuzzi e uditi, altresi', l'avv. Cesarini  per  i
 ricorrenti e l'avv. Melelli per le amministrazioni resistenti;
    Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue;
                               F A T T O
    I  ricorrenti, magistrati ordinari, i primi due di corte d'appello
 e di cassazione ed il terzo di tribunale, con ricorso  notificato  in
 data 16 aprile 1984 esponevano quanto segue.
    La  Corte  costituzionale con sentenza n. 1 del 16 gennaio 1978 ha
 sancito la proporzionalita' retributiva e l'identita' di  trattamento
 economico tra tutti i magistrati a parita' di qualifica.
    Le  sezioni  unite della Corte dei conti con sentenza n. 95/ B del
 31 gennaio 1979, hanno ritenuto che in favore  dei  magistrati  della
 Corte  stessa  fossero dovuti sei scatti figurativi non riassorbibili
 indipendentemente dalla data della loro assunzione in servizio.
    La  Adunanza  Plenaria  del  Consiglio  di Stato, con decisione 10
 dicembre 1983, n. 27, sul  presupposto  della  abrogazione  ad  opera
 dell'art. 18 della legge 2 aprile 1979, n. 97, dell'art. 3 del d.P.R.
 28 dicembre 1970, n. 1080, ha ritenuto applicabile anche a favore dei
 magistrati  ordinari  il  meccanismo di cui all'art. 5, ultimo comma,
 del  d.P.R.  28  dicembre  1970,  n.  1080,  il  quale   prevede   la
 riliquidazione  nelle  qualifiche  superiori via via ragiunte dei sei
 anni  di  anzianita'  figurativa  concessi  al  raggiungimento  della
 qualifica  di  primo  referendario  della  Corte  dei  conti e cio' a
 partire dalle qualifiche dell'ordine giudiziario corrispondenti.
    I  ricorrenti  chiedono  la  estensione  nei  propri confronti dei
 principi giuridici posti dalla decisione della Ad.Pl. citata.
    L'avvocatura  dello  Stato  ha  sostenuto che il legislatore della
 legge 6 agosto 1984, n. 425, intervenuta nelle more del giudizio,  ha
 voluto   escludere   che   il   meccanismo  degli  aumenti  periodici
 applicabile ai magisrati della Corte dei conti venisse  esteso  anche
 ai magistrati ordinari.
    Cio' in particolare con l'art. 3, che fissa una nuova progressione
 economica degli stipendi dal 1 luglio 1983 e con l'art. 9.
    Questo  collegio  rilevava,  con  sentenza,  che  la  materia  del
 contendere, a seguito della entrata in vigore della ripetuta legge n.
 425/1984,  non  era affatto cessata perche' le norme innovative della
 stessa, ed in particolare l'art. 3 citato, non riguardano i  rapporti
 controversi nella loro interezza.
    Il  legislatore  infatti  ha  conferito  alle  norme innovative un
 limitato effetto retroattivo  che  non  coincide  interamente  con  i
 periodi per i quali gli interessati hanno avanzato le loro pretese.
    La  nuova  disciplina  degli  aumenti  biennali posta dall'art. 3,
 viene  fatta  decorrere  dal  1  luglio  1983  e  pertanto   residua
 l'interesse  dei ricorrenti a pretendere per il periodo anteriore, il
 trattamento che loro spetterebbe in base  alla  giurisprudenza  della
 Ad. Pl. secondo la quale quel trattamento, poi sostituito dalla nuova
 disciplina, decorrerebbe dal 1 gennaio 1979.
    Peraltro   questo   collegio  non  avrebbe  avuto  difficolta'  ad
 estendere ai ricorrenti i principi posti dalla Adunanza Plenaria.
    Senonche'  la sopravvenuta disposizione di cui all'art. 1, secondo
 comma, della legge n. 425/1984, che sancisce  che  l'art.  5,  ultimo
 comma,  del d.P.R. 28 dicembre 1970, n. 1080, si interpreta nel senso
 che il trattamento previsto dall'art. 2, lett.  d),  della  legge  16
 dicembre  1961, n. 1308, e dall'art. 10, ultimo comma, della legge 20
 dicembre 1961, n. 1345, spetta  esclusivamente  ai  magistrati  della
 Corte  dei  conti  impedisce  di  giungere  ad  una soluzione, per il
 periodo anteriore al 1 luglio 1983, conforme ai  principi  stabiliti
 dalla Ad. Pl. con la decisione n. 27/1983.
    La questione, peraltro, riguarda solo i due ricorrenti, magistrati
 di corte  d'appello  e  di  cassazione  venendo  esclusa,  da  questo
 collegio, l'applicabilita' della interpretazione favorevole della Ad.
 Pl. a favore dell'altro ricorrente giudice di tribunale.
    Fatte  tali  premesse  questo collegio ritiene che la questione di
 illegittimita' costituzionale del secondo  comma  dell'art.  1  sopra
 citato  non  sia  manifestamente  infondata  considerati  i  principi
 stabiliti dal legislatore costituzionale.
                             D I R I T T O
    Invero  nel  titolo quarto della parte prima della Costituzione si
 afferma,  sub  art.  101  e  segg.,  l'unitarieta'   dell'ordinamento
 giudiziario  realizzato  in  quattro  organismi:  giudice  ordinario,
 giudice amministrativo, giudice contabile, giudice militare, distinti
 solo funzionalmente (art. 107, terzo comma).
    Tale  considerazione  unitaria  e' ulteriormente evidenziata dalla
 disposizione dell'art. 102 della Costituzione, che al secondo  comma,
 vieta  l'istituzione  di  giudici  straordinari o di giudici speciali
 attraverso,  ancora,  l'espressione  di  principi  comuni   a   tutto
 l'organismo  giudiziario, relativi al loro status, con l'affermazione
 del costituire, la magistratura, un ordine autonomo  ed  indipendente
 (art.  104, primo comma) e della riserva legislativa in materia (art.
 108), con l'affermazione per tutti  i  provvedimenti  giurisdizionali
 dell'obbligo  della  motivazione  (art.  111,  primo  comma),  con la
 distinzione dei magistrati "soltanto per la diversita'  di  funzioni"
 (art. 107, terzo comma).
    Questa  configurazione  unitaria  dell'ordinamento  giudiziario ha
 evidenti riflessi sul trattamento economico della magistratura.
    Peraltro  gia' nella sentenza n. 1/1978 della Corte costituzionale
 si  evidenziava  la  costante  preoccupazione  del  legislatore   "di
 garantire  un parallelismo economico con i magistrati ordinari" degli
 altri appartenenti all'ordine giudiziario.
    Non  puo'  negarsi  che tale uniformita' retributiva ha inspirato,
 nel suo insieme, anche la legge n. 425/1984.
    Cionondimeno  l'art. 1, secondo comma, sopra citato, ribadente una
 posizione privilegiata per i magistrati della Corte  dei  conti,  non
 rispecchia   tale   esigenza  e  quindi  appare  contrastare  con  le
 disposizioni sopra riportate del titolo  quarto,  parte  prima  della
 Costituzione.
    E'  da  sottolineare  che tale questione e' gia' stata sottoposta,
 con dovizia di argomentazioni, all'esame della Corte  costituzionale.
    Infatti  con ordinanze in data 16 ottobre 1987, e 4 febbraio 1988,
 il Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte la questione  riguardante
 il contrasto del ripetuto art. 1, secondo comma, con gli artt. 3 e 36
 della Costituzione nonche' dell'art. 9, secondo comma, della legge  2
 aprile  1979,  n.  97,  in  relazione  agli artt. 5, ultimo comma del
 d.P.R. 28 dicembre 1970, n. 1080, art. 2, lett. d),  della  legge  16
 dicembre  1961,  n.  1308,  art.  10,  ultimo  comma,  della legge 20
 dicembre 1961, n. 1345, per violazione  degli  artt.  3  e  36  della
 Costituzione.
    In tale sede si osservava che numerosi appartenenti alle categorie
 che apparivano sfavorite rispetto ai magistrati della Corte dei conti
 nella   applicazione   dei  criteri  di  attribuzione  degli  aumenti
 periodici di stipendio, avevano agito per ottenere l'applicazione del
 trattamento  piu'  favorevole assumendo che le discriminazioni emerse
 in via applicativa dovessero ritenersi contrarie alla legge.
    Si osservava, quindi, che tutte le sentenze pronunziate in materia
 erano state favorevoli ai ricorenti  sino  alla  ricordata  decisione
 dell'Ad. Pl. n. 27/1983, pronunziata in secondo ed ultimo grado, resa
 su un gran numero di giudizi riuniti molti dei quali riguardanti  una
 pluralita' di ricorrenti.
    Senonche',  intervenuta  la legge n. 425/1984, si osservava che il
 legislatore, con la disposizione  dell'art.  1,  secondo  comma,  non
 aveva  voluto  ristabilire in via generale astratta e tendenzialmente
 permanente una disciplina in ipotesi male intesa e male applicata dai
 giudici.
    A  contrario,  quanto  il legislatore aveva voluto disporre per il
 futuro aveva statuito proprio in senso conforme  alla  giurisprudenza
 sino  allora  formatasi:  piu'  precisamente  in  seno  assolutamente
 identico relativamente alla questione della  indennita'  speciale  di
 cui  all'art.  3  della  legge  13  febbraio 1981, n. 27, ed in senso
 analogo sulla questione degli scatti di anzianita'  (recependo  cioe'
 il  principio  della  identita'  di disciplina tra i magistrati della
 Corte dei conti e tutti gli altri).
    Si  osservava  che  l'intento del legislatore nel porre il secondo
 comma dell'art.  1,  in  realta'  era  solo  quello  di  dettare  una
 interpretazione autentica di norme gia' vigenti.
    Tale  intento,  puramente  interpretativo,  nel senso riconosciuto
 anche dalla stessa Corte costituzionale (sentenza n.  123/1987),  era
 confermato   dalla   circostanza   che   le   norme   oggetto   della
 interpretazione  autentica  venivano   contestualmente   abrogate   e
 sostituite  da  una diversa disciplina posta dall'art. 3, sicche' gli
 effetti  dell'intervento  interpretativo  restavano  circoscritti  al
 passato  e  per  di  piu'  ad  un passato ulteriormente ridotto dalla
 efficacia limitatamente retroattiva conferita alla nuova  disciplina.
    Rilevava  quindi  il  Consiglio  di  Stato,  nelle ordinanze sopra
 richiamate, la inesistenza di  una  volonta'  diretta  a  ristabilire
 l'ordine  giuridico  nell'interesse pubblico generale e, all'opposto,
 una volonta' diretta esclusivamentee o, prevalentemente, a  svalutare
 la   funzione  giurisdizionale  e  con  essa  il  diritto  di  difesa
 costituzionalmente garantito (art. 24 della Costituzione).
    Si  notava  che quel sacrificio della funzione giurisdizionale che
 e' insito in  ogni  intervento  di  interpretazione  autentica,  puo'
 essere  accettabile  e giustificato quando la sua finalita' e' quella
 di chiarire e precisare, per il passato e per il futuro, la regola, o
 al  limite,  di  modificarla  sub specie d'interpretazione; non lo e'
 piu', quando la finalita' e'  solo  quella  di  smentire  i  giudizi,
 togliere  effetto  alle  sentenze gia' pronunciate, alterare il corso
 prevedibile dei giudizi pendenti, il tutto peraltro nel  contesto  di
 un  intervento  di  piu'  ampio  contenuto il cui risultato finale "a
 regime",  e'  ispirato  agli  stessi   criteri   dell'interpretazione
 giurisprudenziale.
    Si   denunciava,   dunque,   un  contrasto  con  l'art.  24  della
 Costituzione, nella forma della violazione del  diritto  dei  privati
 interessati  di  agire e difendersi in giudizio; insieme all'art. 24,
 si denunziava anche la violazione del combinato disposto degli  artt.
 102   e  103  della  Costituzione,  intesi  nel  loro  insieme,  come
 fondamento e garanzia di una funzione giurisdizionale (articolata  in
 giustizia  ordinaria  e  giustizia amministrativa) distinta da quella
 legislativa e di uguale dignita' ed originarieta' rispetto ad essa.
    Si  rilevava  che  se si ammette che l'interpretazione legislativa
 autentica non costituisce violazione del principio della  separazione
 dei  poteri,  e cio' si e' sempre detto rispetto al fenomeno normale,
 cioe' quello del legislatore  che  stabilisce  (o  ristabilisce)  una
 regola  valevole essenzialmente per il futuro e solo accessoriamente,
 derivatamente, resa applicabile anche  nelle  controversie  pendenti;
 mentre diverso era il caso in esame ove poteva configurarsi la figura
 dell'eccesso di potere legislativo, cioe' la figura dell'uso distorto
 (come  si  palesa  grazie  alle  circostanze di fatto dell'intervento
 legislativo ed all'ambito ristrettissimo della  applicazione)  di  un
 potere pur astrattamente compatibile con la Costituzione.
    Si  rilevava che la vicenda giudiziaria culminata con la decisione
 del 10  dicembre  1983,  n.  27,  dell'Adunanza  Plenaria  era  stata
 dominata  proprio  dalle questioni di costituzionalita' relative alle
 leggi  che  i  giudici  amministrativi  erano  allora   chiamati   ad
 interpretare  e  che  tali questioni di costituzionalita' erano state
 accantonate, non perche' ritenute irrilevanti o infondate, ma perche'
 era  stato  ritenuto  possibile  superarle  per  via  interpretativa,
 mentre, a contrario, il legislatore del 1984 afferma, forte della sua
 autorita'  d'interprete  autentico,  che le leggi de quibus non erano
 suscettibili dell'interpretazione accolta dai giudici, ma  (solo)  di
 quella  sostenuta  dall'amministrazione  dello  Stato, ridando allora
 vita a quelle questioni di costituzionalita' che si  era  creduto  di
 poter superare.
    Si  rilevava  che  se  e' vero che e' inequivoca la volonta' della
 legge del 1984 di mantenere una  difformita'  di  trattamento  fra  i
 magistrati della Corte dei conti e tutti gli altri, e' anche vero che
 in realta'  quella  distinzione  non  si  fonda  sopra  un  esplicito
 disposto  normativo  di  cui  possa,  sic  et simpliciter, denunciare
 l'incostituzionalita',  bensi'  sopra   una   prassi   interpretativa
 assurta, per i magistrati della Corte dei conti, al rango di "diritto
 vivente",  fondata  sul   complesso   delle   norme   "autenticamente
 interpretate"  dal secondo comma dell'art. 1 della legge n. 425/1984,
 ma non direttamente desumibile da  esso.  D'altro  canto,  l'Adunanza
 Plenaria  (decisione  n.  27/1983)  non  aveva affermato che le norme
 "autenticamente interpretate" dal legislatore  fossero  da  intendere
 come  dettate  per  altri che per i magistrati della Corte dei conti,
 anzi aveva riconosciuto che tale era, in effetti, l'originario ambito
 applicativo  di  quelle leggi, tanto e' vero che la loro applicazione
 analogica alle altre magistrature e' stata ritenuta possibile solo  a
 decorrere  dal 1 gennaio 1979, e non anteriormente, in quanto quello
 era  l'inizio  dell'applicazione  del   nuovo   sistema   retributivo
 introdotto   con   legge   2  aprile  1979,  n.  97;  mai  i  giudici
 amministrativi avevano ritenuto che quel nuovo  sistema  retributivo,
 pur  mantenendo  esplicitamente  (art.  9,  secondo comma) l'istituto
 degli aumenti periodici, non ne contenesse pero' la disciplina e  che
 questa  non  fosse  piu'  desumibile, come per l'innanzi, mediante il
 rinvio a quella propria dei dirigenti amministrativi statali.
    Si  sottolineava ancora che proprio da cio' derivava la necessita'
 di una integrazione analogica grazie al richiamo della disciplina  in
 uso  presso  la  Corte dei conti attesa l'impossibilita' di ravvisare
 alcun motivo di ordine giuridico o razionale per differenziare, sotto
 questo specifico profilo, i magistrati della Corte dei conti da tutti
 gli altri.
    Ne  derivava,  sempre  secondo le citate ordinanze del C.d.S., che
 l'art.  1,  secondo  comma,  della  legge  n.   425/1984,   ponendosi
 esplicitamente  come  interpretazione  autentica  dell'art. 5, ultimo
 comma, del d.P.R. 28 dicembre 1970, n. 1080, dell'art. 2,  lett.  d),
 della  legge 16 dicembre 1961, n. 1308, e dell'art. 10, ultimo comma,
 della legge 20 dicembre 1961, n. 1345,  va  inteso  come  diretto  ad
 interpretare autenticamente, altresi', l'art. 9, secondo comma, della
 legge n. 97/1979, e precisamente ad interpretarlo nel senso che  esso
 conserva,  per  i magistrati diversi dalla Corte dei conti, un regime
 degli  aumenti  periodici  diverso  e  deteriore  rispetto  a  quello
 riservato ai magistrati della Corte stessa.
    Ne deriva che, pertanto, la fonte della disparita' di trattamento,
 priva di qualsivoglia  giustificazione  legale,  etica  e  razionale,
 andava individuata non solo e non tanto nelle leggi n. 1308 e n. 1345
 del 1961, e nel d.P.R. n. 1080/1970, quanto e soprattutto nella legge
 n.  97/1979,  beninteso secondo l'interpretazione fornita dalla legge
 del 1984.
    Ed ancora, che il paramentro di costituzionalita' da invocare era,
 anche in  questo  caso,  l'art.  3  con  particolare  riferimento  al
 principio,  costantemente osservato dal legislatore, tranne in questa
 occasione, di una sostanziale parita' di trattamento economico fra le
 varie  carriere  di  magistratura  (ivi  compresa  l'avvocatura dello
 Stato).
    Si  ricordava  che la Corte costituzionale, con sentenza 17 luglio
 1975,  n.  219,  aveva  affermato   che,   pur   nel   quadro   della
 discrezionalita'   legislativa  in  ordine  alla  determinazione  del
 trattamento  di  carriere  distinte,   rappresenta   violazione   del
 principio di uguaglianza l'immotivata differenziazione retributiva di
 carriere per l'innanzi considerate  costantemente  meritevoli  di  un
 trattamento conforme.
    Si  sottolineava  che  infine la (sospetta) violazione dell'art. 3
 della Costituzione, ridonda anche in (sospetta) violazione  dell'art.
 36  (principio  dell'adeguatezza  della  retribuzione alla qualita' e
 quantita' del lavoro prestato).
    Cio'  posto  rileva  questo  collegio che le questioni, cosi' come
 prospettate dal Consiglio di Stato  nelle  ordinanze  di  rimessione,
 sono   state   dichiarate   manifestamente   infondate   dalla  Corte
 costituzionale con ordinanza 24 novembre-6 dicembre 1988, n. 1083, in
 Gazzetta  Ufficiale,  serie  speciale, n. 50 del 14 dicembre 1988 sul
 presupposto della gia' avvenuta declaratoria  di  non  fondatezza  ad
 opera della sentenza della Corte costituzionale n. 413/1988.
   Sottolinea  tuttavia questo collegio che le questioni stesse, lungi
 dall'essere state analizzate mediante la sentenza or ora citata,  non
 vennero  allora  neppure  affrontate,  essendosi in tale occasione la
 Corte limitata a ribadire la ratio de futuro delle  norme  innovative
 della  legge n. 425/1984, senza evidenziare i motivi per cui le norme
 interpretative,  che  operavano  sulle  situazioni   pregresse,   non
 collidessero  con  il  dettato costituzionale; pertanto, non appaiono
 allo stato risolti  i  dubbi  di  costituzionalita'  evidenziati  dal
 C.d.S. nelle ordinanze succitate riassunti nella presente ordinanza e
 pienamente condivisi dal collegio.
    Appare,    quindi,    indispensabile    richiedere    alla   Corte
 costituzionale un'ampia disamina  ed  una  conseguente  decisione  in
 ordine alle questioni di costituzionalita' che implicano, allo stato,
 il pericolo di una grave rottura dell'equilibrio costituzionale tra i
 poteri  legislativo  e  giurisdizionale,  essendo  in  ogni  caso  le
 questioni  enunciate  rilevanti  per  la  decisione  della   presente
 controversia.